Good to see you

anchor couple fingers friends
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Bello vederti.
Te lo dicono ogni volta, qui. E quando lo fanno ti stringono la mano, o ti abbracciano, o ti riempiono con i loro occhi grandi, buoni. Occhi americani. E’ talmente bello vederti, che poi non ti chiedono più di uscire e, se lo fai tu, reagiscono come se gli stessi chiedendo come vanno le emorroidi, la candida, la diarrea o l’herpes genitale.

Intendiamoci bene, però. Non voglio dire che gli americani siano cattivi o, peggio, anaffettivi o, peggio, ipocriti e superficiali. No. E’ che siamo diversi, noi italiani. Che al liceo cresciamo con lo stesso compagno di banco per cinque anni, e questo diventa una persona che sa più cose su noi di nostra madre.
Noi, che viviamo con mamma e papà finché proprio non ci sopportano più o, meglio, finché un direttore di banca si rassegna a concederci un mutuo trentacinquennale.
Noi, che siamo quelli del “oh, caffè?” senza programmarlo, così, perché ci si incontra in corso Buenos Aires, o in metro, o al bar sotto casa.
Noi, che le nostre amiche le vediamo sempre, e se non le vediamo le sentiamo, perché viversi è bellissimo, assaggiarci spesso, fino all’ultima goccia, finché ci sono parole da dire, risate da gridare, lacrime da far scorrere via.
Noi, che un lavoro quando ce l’abbiamo ce lo teniamo stretto come Linus la sua coperta, e che con i nostri colleghi finiamo per avere un rapporto più intimo che con mariti, mogli e figli.
Noi, che la domenica andiamo a pranzo dai nonni, sempre, e se sappiamo di non poterci andare facciamo un salto in settimana, perché è giusto che vedano spesso i nipoti, perché è bello che vedano i loro figli.
Noi, che sappiamo costruire famiglie anche sul pianerottolo di casa, con i vicini giusti, se non rompono troppo le palle e non fanno troppo casino.

Con queste solide premesse, veniamo negli Stati Uniti con i bisogni affettivi di Remì e di Oliver Twist e, se tutto va bene, ci denunciano per stalking. Sì, perché da queste parti i bambini e le bambine crescono con l’idea di autonomia e di indipendenza. Non hanno bisogno di nessuno. Già dalle medie non hanno una classe, ma almeno 8, e il compagno di banco cambia ogni giorno. A 18 anni fanno le valigie e se ne vanno a migliaia di miglia a studiare, per tornare a casa solo durante la settimana del Thanksgiving. Trovano un lavoro e ci si fiondano, giorno e notte, accumulando esperienza, soldi, sicurezze e nuova autonomia. Dopodiché lo cambiano se non si sentono abbastanza pagati e considerati. Le amicizie sono una spunta nell’agenda, qualcosa a cui l’americano medio dedica lo stesso impegno con cui programma le riunioni di lavoro. I nonni sono lontani, quindi amen, si salutano via Skype ogni tanto (good to see, you, mum and dad) e anche questa spunta è fatta. I vicini di casa sono persone a cui portare il cestino di benvenuto quando arrivano, a cui sorridere quando la domenica ci si incrocia falciando il prato e con cui fare un paio di barbecue all’anno.
Due mondi, insomma. Anzi, due universi lontani.

Dopo un paio d’ore di happy hour con un americano, arriva il momento dei saluti. Baci, abbracci e tu sei lì, con il tuo bagaglio emotivo, sei come Remì e non vuoi stare solo, quindi dici la cosa sbagliata, ti scappa fuori proprio: quando ci rivediamo? Emorroidi, candida, diarrea ed herpes genitale tutti insieme. L’amico americano apre l’agenda, sudando, ci mette una vita e alla fine te la butta lì: il 25 ottobre dalle 6 alle 8.30.

Ma levati, va’.

6 risposte a "Good to see you"

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  1. Aahahah! Che fenomeni! Quei pochi americani con cui ho avuto modo di avere a che fare di persona mi hanno proprio lasciato questa sensazione di “lo faccio perché “devo” (=sta bene farlo) ma non perché ti apprezzo.
    Non siamo amici, siamo una riga sul calendario. Se siamo amici-amici, due. 😉
    Per non parlare delle risposte ‘brutally honest’ tipo “Non posso perché preferisco fare altro”. Ahahah!

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