Hut!

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Quando Leo è arrivato negli USA, la prima cosa che ha fatto è stata arredare la sua cameretta con tutti i suoi ricordi più importanti, la maggior parte dei quali sono legati alla Fulgor, la squadra di calcio in cui faceva il portiere. La seconda cosa che ha fatto è stata cercare una squadra di calcio in cui proseguire il suo percorso di calciatore e rendere fiero Rocco, suo modello e allenatore.
Dopo un mese si è reso conto che, se avesse voluto limonare appena appena o, almeno, avere un gruppo di amici che non fossero dei nerd o dei losers, doveva cambiare registro e diventare un giocatore di football.
“Ma non sai nemmeno le regole” gli ho detto.
“Non fa niente, imparo” mi ha risposto senza levare lo sguardo da Texas vs Oklahoma.
“E il calcio?”
“Eh…”
“E Rocco?”
“Rocco capirà”.
E certo. Ma con quei 40 chili lì dove vai, ho pensato, senza dirglielo. E ho distolto lo sguardo dalla TV, dove in quel preciso istante un giocatore vestito di marrone volava per aria e ricadeva al suolo di testa spinto da un armadio nero che infieriva sul suo corpo.

Da quel giorno lì si allena ogni giorno alle 7 del mattino, studia le play, cioè gli schemi di gioco, solleva pesi, tracanna beveroni di proteine e si sforza di mangiare il doppio di quanto vorrebbe, il tutto per guadagnare quei chili che dovrebbero impedire ai difensori (bisonti di 90 chili) di fare a pezzi il suo esile corpo. Il sogno, quello vero, quello che a me non confesserebbe mai, è poter un giorno gridare quella parola, HUT, tenendo in mano la palla da football in attesa di lanciarla verso il touchdown. Se non avete capito, questa cosa qui, questa parola magica, la dice il quarterback. L’unico, bello e impossibile, sogno americano. Il quarterback è bello, sveglio, ricco, bravo, veloce, simpatico, intelligente. Ha tutto lui, il quarterback. Le cheerleader più fighe gli sbavano dietro, ma anche quelle meno fighe e anche le ragazze del coro, della banda, del giornale scolastico, perfino quelle del comitato degli studenti. Anche se loro non lo ammetterebbero mai, diciamocelo chiaramente.
Quindi è andata così, Leo ha sacrificato sull’altare della popolarità sociale il suo amore per il calcio. A me sta bene, per carità. Nelle uniche partite che ho visto ha giocato tipo 24 secondi, quindi sono sufficientemente tranquilla da non temere per la sua vita. In Italia un giocatore che entra in campo per 24 secondi va dallo psicologo. Qui, invece, si sente parte del team esattamente come chi gioca i quattro tempi.
“Io ho fatto quello che dovevo fare, son contento” mi dice lui, anche se quello che doveva fare era:
– aspettare il grido di guerra di un Thor in casco e protezioni (hut!)
– scattare avanti per qualche metro
– scattare a sinistra per qualche altro metro
Fine dell’azione.
Tutto qui? Penso e mi mordo la lingua per non ferire il suo orgoglio di uomo-bambino che sogna di diventare il nuovo Tom Brady, possibilmente con accanto la nuova Gisele Bundchen.
“Ottimo, bravo” dico invece, con mio marito che mi guarda male perché vorrebbe dirgli machecazzogiochiafarecheèevidentechenonseicapace e non lo dice perché anche io lo sto guardando male e guai se si azzarda a mortificare il mio bambino.
Che, poi, alla fine, forse ha davvero ragione Leo.
Perché anche se gioca 24 secondi, la squadra c’è e si sente.
Perché in questo gruppo di 30 ragazzi, tutti hanno il loro ruolo e il loro posto nella storia. Perché gli allenatori dedicano a ciascuno di loro, nessuno escluso, un’attenzione che non è esagerato definire da personal trainer.
Perché ogni metro in più che riesci a fare, ogni secondo in cui ti capita quella palla in mano, ogni passo che riesci a far volare su quel campo, è un grande momento di crescita, di partecipazione, di vittoria.
E, soprattutto, perché non importa se hai fatto touchdown o se hai giocato 24 secondi, quando una ragazza ti chiede che sport fai, tu puoi sempre dirle “I play football for Westlake High School”.
E, calciatori, levatevi.

2 risposte a "Hut!"

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