Oggi stavo leggendo il post di Chiara, un’amica italiana che vive qui ad Austin. In questi giorni è in Italia e scrive che ciò che le manca di più del nostro Paese sono le piazze, intese come quei luoghi in cui ci si trova, si sta insieme, si mangia un gelato e ci si sente a casa.
Anche noi avevamo la nostra piazza, con la nostra Chiesa (nostra non tanto, visto che non ci siamo mai entrati), i gradini sui quali stavamo seduti a mangiare granite e chiacchierare tra amici. Quella piazza ci ha visto diventare grandi. Ha creato amicizie che durano anche ora, a migliaia di chilometri di distanza.
“Chi c’è?” era la domanda di rito.
“Ale, la Cinzia, la Sere, Robi, dai venite che siamo tutti qui, portate anche il Leo”.
La piazza ci ha accolto mentre spingevamo una carrozzina, poi un passeggino. Poi sono arrivati il triciclo, la bici con le rotelle e la bici senza rotelle, lo skateboard e il monopattino. Poi, a un certo punto, c’eravamo solo noi, senza più mezzi di trasporto al seguito. Solo noi, le mamme e i papà, seduti su quei gradini dopo il lavoro, o il sabato mattina dopo il mercato. Ma anche se in quella piazza i nostri figli non venivano più con noi perché preferivano andare in giro da soli, arrivavano mese dopo mese, anno dopo anno, nuove famiglie, nuovi neonati, nuovi bambini. Le chiacchiere del pomeriggio si allungavano in un aperitivo o in una pizza, le chiacchiere del dopo-pizza portavano a un gelato, poi a due passi, poi a casa. A piedi.
Anche a me, come a Chiara, manca la piazza. Mi manca la routine, di quella piazza, i legami infiniti che si creano guardando dei bambini che giocano tra loro. Mi manca la grande famiglia che si crea sulle panchine, al punto che quando un bambino fa una cazzata non è nemmeno necessario che il genitore si alzi a intervenire, perché tanto sta già intervenendo qualcun altro. Era bella, la routine della piazza, così gioiosa, così viva.
E poi, si sa, la routine è rassicurante. anche perché mette un po’ di ordine al caos dei pensieri, delle paure, del futuro incerto. Per questo motivo, credo, sto cercando di vivermi anche qui una sorta di routine, una sottile tela di abitudini rassicuranti.
Ad esempio mi piace quando il mio vicino di casa, mentre gira tra le corsie di Trader Joe’s, mi manda un vocale per chiedermi se mi serve qualcosa. E a me serve sempre qualcosa…
Mi rasserena il messaggio della mia vicina, che mi chiede se sono a casa perché vorrebbe passare a bere un the con il suo bambino, un pupazzone bellissimo di 5 mesi che ha più pieghe sulle gambe e sulle braccia di quante ne abbia uno Shar Pei.
Mi piacciono i venerdì sera a Steiner Ranch, a casa dei nostri amici, davanti a una birra e a una pizza fatta in casa, ridendo come pazzi fino a notte.
Mi rilassa quando i miei amici vanno a far passeggiare il cane e si fermano davanti alle nostre finestre per chiacchierare, e il cane lo sa e si sdraia sereno perché sa che per trenta minuti buoni non si muoveranno da lì. Anche per lui, questa è una routine.
Insomma, qui di piazze non ce ne sono. A malapena ci sono i marciapiedi. Ci si muove in macchina per andare ovunque e la città non la si vive se non per lavorare. Non si passeggia, non ci si ferma, non si osserva la vita che passa seduti su una panchina. Ma la socialità esiste comunque. E’ diversa, più in punta di piedi, più a piccole dosi, senza strozzarsi. E per noi Italiani, rumorosi, allegri, amanti della bella vita e della buona compagnia, è come ritrovarsi improvvisamente in mezzo a un bosco silenzioso. Ma anche in mezzo al silenzio ci sono i rumori. Non saranno le grida di una piazza, ma ci sono. Basta saper ascoltare.
Anche qui non ci sono molte piazze. Ci sono alcuni parchi, ma quelli nel mio quartiere sono lontanucci e spelacchiati, pieni di cacche di cane. A me piacerebbe andare a leggerci un libro ogni tanto, ma le panchine sono ridotte al minimo e scomode per evitare che i barboni ci si accampino. Ogni tanto soffoco in mezzo a tutto questo cemento e ho bisogno di aria!
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Ti capisco, Isa!
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