Uno strano ritorno a casa

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Non parlerò di quanto sia difficile riprendere la mia vita italiana, quando il mio desiderio di prendermi cura di mio papà e della sua malattia si è infranto con la sua scomparsa a pochi giorni dal mio arrivo. E’ ovvio che io soffra. Sono stata (lo sono ancora) una figlia felice, molto amata dal suo papà. Lo sento in ogni cosa, ma lui non c’è. Tuttavia non questo che voglio condividere oggi. Vi voglio raccontare un’altra storia. La storia di un ritorno amaro anche per altri aspetti.

Uno dei punti fermi della mia vita italiana è il mio lavoro. Un lavoro sicuro, nella pubblica amministrazione. Un lavoro che mi è sempre piaciuto, perché nonostante si parli sempre male del settore pubblico, io ho sempre avuto la fortuna di lavorare in team tosti, di gente con voglia di fare e di cambiare. Per questo motivo, nonostante la mia esperienza internazionale, le suggestioni e gli stimoli delle multinazionali americane high tech, tornare a camminare tra i corridoi di un tempo era una consapevolezza rassicurante.

Purtroppo cinque anni sono passati, i tempi cambiano e la gente pure. E può succedere che quelle persone deputate a giudicare il tuo lavoro, la tua esperienza pre e post trasferimento negli USA, le tue inclinazioni professionali, il tuo curriculum, decidano che il tuo ruolo da questo momento in avanti sia di sbrigare pratiche amministrative ai servizi cimiteriali della città. Ci spiace, il fabbisogno è lì. Tu ci servi lì. Ma io non seguo pratiche amministrative da quindici anni. Non so nemmeno come si scriva un atto. Io faccio altro. Piuttosto mettetemi in Anagrafe a parlare inglese con gli stranieri, quello lo so fare. Eh, no, ci spiace, o lì o niente.

Quindi, dopo due decadi e più di posto fisso, mi sono detta che se era lì o niente, allora era meglio niente. Ci ho pensato, ho chiesto perdono a mio papà perché lasciavo un paracadute sicuro e mi mettevo nelle trame del mondo del lavoro italiano, un mondo del lavoro tristemente noto per le sue scarse opportunità, e ho firmato le mie dimissioni.

La cosa bella è che le offerte di lavoro invece non mancano (sorpresa), quindi sono già felicemente assunta da una multinazionale inglese per lavorare su ciò che ormai mi appassiona, mi trascina e mi ispira: le parole. Totale giorni da disoccupata: 1. Sicuramente se non avessi avuto alle spalle quasi tre anni di ambiente internazionale, di comunicazione bilingue (soprattutto di pensiero bilingue), non sarei stata tanto fortunata. Invece, a quanto pare le multinazionali cercano quelli come me un po’ ovunque, perfino in questa parte del Mediterraneo in cui l’economia non sembra volare. La mia casella di posta elettronica è ancora più affollata di offerte di colloquio di quando abitavo in Texas. Grazie, babbo…

Per il resto, ho capito di essere una persona diversa rispetto a cinque anni fa, quando lasciavo l’aeroporto di Malpensa per volare oltreoceano, esattamente quando in quello stesso aeroporto ci sono atterrata e sono andata a recuperare le valigie. Mentre ad Austin le persone attendono diligentemente il bagaglio a una certa distanza dal rullo, per dare a tutti la giusta visibilità e avvicinarsi SOLO quando la propria valigia entra nel campo visivo, a Malpensa la gente si affolla a pochi centimetri, spesso con gli occhi verso il cellulare, e per raggiungere il proprio bagaglio devi fare i numeri. Io, Robi e Leo osservavamo la scena così, impacciati e un po’ timidi.

Da quel momento è stato un susseguirsi di piccole consapevolezze: di quanto sia sporca la città, quanto sia mal frequentata e maltrattata. Di quanto la gente sia delusa, arrabbiata, piegata in due dalla crudeltà del covid, della disoccupazione, della mancanza di futuro. Di quanto l’invidia sia il sentimento dominante, in Italia, insieme all’amarezza e alla disillusione. Insomma la gente ci guarda e ci dice “perché siete tornati?”.

Già. Perché siamo tornati?

Per la famiglia. Per le radici. Perché questa è casa.
Perché le mie persone del cuore sono quasi tutte qui.
Perché qui è dove volevo tornare per ricominciare con una carica e uno spirito nuovi.
Purtroppo, però, ora che mio papà non c’è più, è difficile guardarsi intorno e scovare bellezza e speranza. Chi mi vuol bene mi dice “datti tempo”, che è la cosa che mi riesce peggio, da sempre. Perché quando sento qualcosa, la sento subito, forte, e mi soffoca. Datti tempo. Fai sciogliere il dolore, la perdita, il distacco, e tornerai a guardare a colori, come facevi prima. Quindi mi do tempo, aspetto che il dolore faccia spazio ad altre emozioni e percezioni. Ma per ora, ovunque mi volti, vedo gente incazzosa e maleducata. E mi manca tanto quel salutarsi e sorridersi sempre che in Texas mi sembrava solo ipocrisia, invece era un piccolo dono gratuito e disinteressato. Mi manca quell’ordine e quella pulizia, quel senso civico, quel rispetto degli spazi e delle vite altrui, mentre qui vedo solo una lotta per la sopraffazione, vedo prepotenza e arroganza. E’ questa l’Italia che ho lasciato? O sono io, che scelgo di vedere solo questo, così come nei cinque anni passati in Texas sceglievo di vederne solo i lati più affascinanti?

Per darmi una risposta devo certamente fare una cosa, e una sola: darmi tempo. Quindi aspetto e mi lascio guidare da quello che succede. Con un grande vuoto e una grande mancanza dentro, che spero di riempire presto con qualcosa di nuovo e di bello.

7 risposte a "Uno strano ritorno a casa"

Add yours

  1. Molto interessante e commovente la tua storia!!
    Scusatemi è possibile scambiare un messaggio in privato con la protagonista della storia!?
    La mia email è: marzia.auriemma @gmail.com
    Grazie

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  2. Io ero del sud Italia, e non mi ci sono mai trovato bene, ho passato i miei anni peggiori da quelle parti… ma la tua storia non mi è nuova: leggendo qua e la, ho trovato storie di persone della ex Unione Sovietica tornare a Stalingrado durante la guerra per aiutare… e morire li, quando potevano stare al sicuro negli USA.
    13 anni fa e rotti, sono venuto nel nord Italia (o meglio, sono riuscito a tornarci) e sono stati anni in cui mi sono ripreso… ma come te, mi chiedo: la guerra che ho combattuto io nel sud Italia, è servita a qualcosa?… Dovrei tornarci?…
    A dire la verità, la risposta a entrambe le domande è un “no” convinto, l’Italia non è un paese per viverci, ma per fare vacanze, solo gli stranieri ci vedono bene perché non vedono il modo in cui viviamo… e meno male che qui sono in una elitè dell’Italia. Non che mi lamenti, questi 13 anni che ho passato qui, sono stati un toccasana.
    A differenza di te, non ho messo radici nel posto in cui vivevo, non ho niente che mi leghi alla città dove ho vissuto l’infanzia e la giovinezza… non ho più famiglia e i miei parenti sono lontani…
    Il consiglio che ti voglio dare è questo: tornatene nel tuo Texas e dimenticati di qui, cambia vita, ci guadagni soltanto. I valori per cui tu vuoi restare, non ti daranno una vita migliore qui….
    Io passando dal sud al nord, ho solo il rimpianto di non averlo fatto prima…

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  3. Ciao Antonella, non so se ti ricordi di me. Sono un tuo vecchio collega della USL di Milano. A differenza tua io sono rimasto nello stesso ufficio stipendi, anche se di una altra ASL, dove ti accolsi tanti anni fa, al tuo debutto nel SSN. Ieri ho trovato per caso nelle mie scartoffie in ufficio un tuo appunto e un prospetto che avevamo fatto insieme per la procedura stipendi. E ho fatto un tuffo nel passato… poi ho provato a cercarti ma non essendo sui social non riuscivo ad avere tue notizie. Smanettando fo trovato questo tuo meraviglioso blog… Mi spiace molto per papà Vargiu… Un abbraccio dal tuo collega Angelole

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    1. Ma come potrei dimenticare? Ti ho cercato anche io (pur sapendo che non ti avrei MAI trovato sui social) e sono proprio contenta che mi abbia trovata tu, incredibile! Mi hai fatto tornare in mente in due secondi tutti quegli anni meravigliosi (ovviamente in senso lato) e tanta nostalgia. Quante risate…Segnati il mio numero 3297059930 e scrivimi!

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